Da anni mi batto per una nuova epistemologia della scienza medica che sia relativa e sistemico relazionale, che sia di umiltà e di azione, che sia circolare ed emozionale.

Perchè Scienza Relativa? Se accettiamo il presupposto che tuttora la ricerca scientifica è in pieno sviluppo, è facile dedurre che nel presente non siamo detentori della verità clinica. Pensare in relativo, piuttosto che in assoluto, ci permette di accettare varie possibilità di cura e ci facilita il rispetto della scelta dei curati.

Perchè Scienza Relazionale? Ritengo che la relazione sia un processo dinamico ad ampio raggio e uno strumento che incide sulla cura e come tale deve essere misurata e quali/quantificata.

 

Il modello sistemico-relazionale è applicato “naturalmente” nella pratica, ma non viene evidenziato nell’osservazione clinica e decodificato con dati confrontabili nelle cartelle cliniche. La considerazione del processo sistemico – relazionale dove siamo tutti attori retroagenti permette ai curanti consapevoli di questo processo di alleggerire il proprio compito procedendo in un costrutto di cura individualizzato e creativo.

La letteratura clinica e psicologica, e la cultura che di riflesso ci permea, è tuttavia ancora infarcita di certe vaghezze lineari che a volte ci fanno balenare protocolli di comportamento buonisti a cui attenerci per non essere additati come cattivi medici. Non sfugge che la “buona relazione di cura” sia evocata ed auspicata in ogni trattazione medica. L’aggettivo “buono” non andrebbe usato. E’ pleonastico, obsoleto e statico dal momento che il significato etimologico della cura implica già di per sè un contesto affettivo, pieno di “empatia” e “amore”.

Di asserzioni del tipo: “L’empatia è l’atteggiamento che fonda la cura”.“Per prendersi cura in modo autentico, occorre instaurare una vera e propria relazione empatica d’aiuto: un atteggiamento attento all’altro, di accoglienza, ascolto e apertura… ciò genera anche un senso di vigilanza, di preoccupazione e di inquietudine”. “Chi cura deve entrare in contatto con la sofferenza del paziente attraverso la propria sofferenza, mettere in gioco la propria umanità, accettare le proprie manchevolezze”….. sono pieni i testi medici e psicologici.

Paradossalmente con queste generalizzazioni ci allontaniamo dalla emozione della scienza.

Il termine “empatia” volgarizzato e semplificato nella capacità “del mettersi nei panni dell’altro” è spesso abusato nella sua ambiguità. Sembra coinvolgere entrambi i soggetti ma è più spesso punteggiato a partire dalle azioni del curante.   In che modo costui si mette nei panni dell’altro? Si immedesima e evoca la teoria dei neuroni specchio azzerando le sue modalità esperenziali?

E per converso il soggetto curato che sente lo sforzo del curante “di mettersi nei suo panni” è sistematicamente grato verso il curante? Costui può apprezzare lo sforzo, ma può vederne anche il limite e può risultare infastidito dalle successive interpretazioni che partono per forza dai vissuti esperenziali del curante. E’ necessaria dunque la valutazione delle varie transazioni relazionali, aggiustando continuamente il tiro ed accettando che si può uscire anche – senza scandalo – dal processo empatico.

Il processo relazionale impone la visione dinamica delle reazioni vicendevoli senza giudizio: chi viene curato retroagisce contestualmente alle azioni/parole di chi cura. Questo a sua volta si regola e retroagisce in/consapevolmente all’azione/emozione del curato.

E’ un processo dinamico e temporale che va di volta in volta ritrascritto.

Nell’indirizzo sistemico – relazionale c’è la volontà di fissare ed immettere i dati comunicativi all’atto della compilazione della cartella clinica. Questo comportamento obbliga i curanti a registrare il loro disagio e le reazioni che avvengono in quel determinato contesto. Se i curanti non si abituano (o non vengono obbligati) ad analizzare i dati dinamici e relazionali, c’è il rischio che essi soffrano inutilmente del giudizio di inadeguatezza e di inefficacia terapeutica da parte dei curati, malgrado i loro sforzi benevolenti.

Dal momento che noi agiamo in relazioni agli altri, al contesto e al simbolo, da curanti ci tocca intaccare il nostro “protocollo empatico” pieno di “buone” intenzioni, esaminando altre soluzioni adatte a stare vicino a chi vogliamo curare nella modalità da essi richieste.

Nella relazione, il prendersi cura dell’altro non può mai rifarsi a schemi precostituiti: i processi cognitivi avvengono dopo che c’è stata la riorganizzazione in/conscia del contesto relazionale. Il momento presente, il qui e ora, diviene l’accadimento che va catturato e decodificato a posteriori.

Mentre la meditazione, prima di ogni incontro terapeutico, potrebbe essere un modo per prepararci a sperimentare la nostra presenza, combinando il vuoto/pieno mentale con la sospensione del giudizio per percepire l’altro in tutta la sua essenza e sfiorargli l’anima.

 

Nella Scienza Sistemica Relazionale e Relativa, ai dati di relazione e relatività immessi in cartella clinica, aggiungo oggi con maggior vigore (visti gli studi da noi portati avanti sulla corporeità e “la sapienza incarnata”) i dati percettivi che implicano la presenza dei curanti nel dialogo corporeo.

Tutto quello che abbiamo detto della relazione circolare manca dell’origine dell’incontro: esso avviene attraverso i nostri sensi e ad essi ci riferiamo quando retroagiamo alla presenza/assenza dell’altro. II dialogo corporeo è intuitivo ed immediato. Quello che decodifichiamo a posteriori, il ragionato e l’astratto, va immesso nella cartella clinica analogamente a qunato succede per i dati relazionali.

Questo processo necessita di un addestramento alla propria presenza corporea nella cura dell’altro. La presenza attiva con tutti i sensi sarà in grado di percepire più input significativi del contesto. Ad esso reagiremo con energia – attraverso un linguaggio essenziale – predisponendoci all’incontro senza giudizio o strategia operativa.

Anche sulla corporeità la letteratura generalizza, confonde , dà informazioni parziali.

Gadamer (Dove si nasconde la salute del 1993) sottolinea “come la cura si riferisca al tastare con la mano il corpo del malato. In questo modo pone l’esserci della persona (medico e paziente) nella sua corporeità.” Ma dobbiamo fare un salto dal tastare al toccare, dove il tocco è dialogante e retroagente anch’esso.

Nella relazione terapeutica come curanti abbiamo la fortuna di poter stoppare il verbale quando questa diventa lamento distante e inefficace. La visita medica infatti prevede un contatto corporeo. Con esso si crea il silenzio e si dà vita ad un immediato e profondo dialogo corporeo.

Ma si tratta di presentificare la posizione aptica ed etica (G. Martino e H. Godard – Il disagio in senologia 2014-2016) e la definizione di noi curanti nel momento in cui chiediamo all’altro il permesso di essere toccato e diamo a noi stessi la possibilità di avvicinarci/allontanarci dalla risposta di assenso/dissenso del curato.

Potremo dire “Non sono il medico che la tasta, ma sono la persona che discretamente chiede accesso alla sua pelle, alla sua corporeità e attende da Lei il permesso di esserci. Insieme modelleremo e produrremo il nostro modo di entrare in relazione e di procedere nella cura”.

 

Per quanto ci è stato finora insegnato… tendiamo ad andare verso l’altro in una ottica lineare e oggettivante che vede centrale colui o colei che deve essere curato. Se invece puntiamo l’ottica sui curanti… lo incarichiamo di andare verso l’altro con l’ascolto, l’empatia ed il rispetto, in momenti a volte per loro molto critici.

Il curante si confronta – più spesso di quel che non si creda – con la sfuggevolezza che caratterizza ciò che è proprio dei viventi.   Accanto  all’incertezza diagnostica e terapeutica, il medico si ritrova a fronteggiare la complessità relazionale del vivente e la propria  personale risposta emotiva e valoriale.

Sa profondamente che non è “il soggetto che si suppone che sappia e che prescrive”, ma una persona curiosa ed amorevole che scrive un giallo in cui mette se stesso come indiziato e cerca di trovare gli indizi favorevoli per la risoluzione migliore del caso.

Perdere i paletti di sicurezza e di ruolo non sempre deve portare a rintanarsi nei protocolli prefissati. Una volta presa consapevolezza che la dinamica relazionale non è uno svantaggio, ma è una opportunità di essere tutti responsabili e creatori di ciò che succede, ci vedremo artefici – insieme alla persona curata ed il suo sistema di appartenenza – di  un progetto  consensuale ed unico che si avvicina alla produzione artistica.

 Questa modalità dinamica di vedere/percepire la reazione dell’altro, capire come si retroagisce verbalmente ed analogicamente, immettere i dati relazionali, percettivi e simbolici nella cartella clinica serve a: dare fiato ai curanti nelle situazioni difficili e conflittuali; cambiare il protocollo assistenziale aggiungendo note sulla complessità della cura dei viventi (ed anche dei morenti); indirizzare la ricerca verso la medicina sistemica.